Le regole del gioco di Antonio Recalcati
Vittorio Sgarbi
Mi chiedevo in questi giorni che cosa determini la fortuna o la sfortuna di un artista, che cosa deve concorrere per farlo grande e che cosa induca a farlo dimenticare. Accade assai di frequente che un artista appaia come una folgore e si esprima giovanissimo in tempi brevissimi, per poi sparire quasi senza lasciare traccia. L’interruzione può essere’ nella vita, come è accaduto a Rimbaud; o contro la vita, per l’improvviso intervento della morte: è questo il caso di molti grandissimi, e amatissimi dai sopravvissuti. Penso a James Dean, a Domenico Gnoli, a Raymond Radiguet, a Gérard Philippe, a Carlo Michelstaedter, a Pino Pascali e altri numerosi. Penso a loro, ma so che il lampo della loro vita, la breve durata della loro intensissima ricerca hanno colpito la mente di molti, li hanno resi cari come se avessero recato un messaggio divino, avvicinandosi alle forme del più alto sentire. E questo l’aspetto più attivo del consumato verso di Mimnermo: ”Muore giovane colui che al cielo è caro.” Per essere poi, aggiungiamo noi, a tutti caro.
Ciò che è assai più raro e insolito è il caso in cui un artista, dopo una lunga pausa di meditazione, dopo un silenzio che segue il momento della prim~a e stupefacente apparizione, ritrova, nella maturità, un nuovo e prepotente impulso a fare, attizzando altri incendi che rinnovano il calore del primo. Trovare questa forza è difficile, richiede coraggio. C’è qualcosa di pauroso, infatti, di traumatico, in ogni rinascita, come avvertiamo negli annuali passaggi delle stagioni. Ci dovremmo avere fatto l’abitudine, ma sempre ci stupiscono, ci trovano impreparati. Non ricordavamo più un inverno così freddo, una primavera così dolce, un’ estate così calda. Così avviene nella rinascita dell’ arte, negli episodi inattesi in cui l’esperienza di un artista riprende il corso interrotto. Questo è il caso di Antonio Recalcati che fu un mito negli ormai lontani primi anni Sessanta, quando la sua giovinezza corrispondeva con un’impetuosa e sconcertante rivoluzione o vera invenzione, che è lo stesso, del linguaggio figurativo.
Assai presto, mentre si affermavano i notevoli fenomeni della pop art, le sue “impronte” furono un’idea nuova, una vera invenzione formale. Già nel 1964, in un suo consuntivo, Renato Barilli poteva scrivere: “Sta avvenendo un rivolgimento di grande importanza nell’ arte moderna. Sembrava che il suo percorso’ fosse destinato a distaccarsi sempre più dagli aspetti comuni di cose e figure, verso cieli di pura astrazione, ma ecco all’improvviso un mutamento di rotta: ora quel percorso vira decisamente e punta di nuovo sulla realtà più trita e volgare. Se prima dava l’impressione di volersene allontanare all’infinito, ora pare voler convergere su di essa asintoticamente, come si dice in geometria, cioè tendere, allimite, a far sparire ogni residua distanza e a combaciare con quella [. .. ]. Ne fanno fede, fra gli altri, i dipinti di Recalcati, puntualmente ripieni di telai di finestre, di fughe di pavimenti, di paesaggi bèn rifiniti nei loro particolari. Le nozioni visive comuni, le nozioni ‘casa’ e ‘stanza’ e ‘finestra’, le povere nozioni che sono il patrimonio dell’uomo della strada e che l’arte moderna aveva finora sistematicamente depresso, impongono di nuovo la loro attrazione, richiamano a sé gli artisti che se ne erano allontanati di troppo. Assistiamo dunque a un ‘grande ritorno’, è cioè in atto quell’evento tanto atteso da generazioni e generazioni di spettatori arroccati nel ‘senso comune’ e sbigottiti dalle esperienze contemporanei, sicuri però che un giorno non lontano le buone e solide figure quotidiane avrebbero ripreso il sopravvento? [. .. ] In effetti, non c’è per niente un ‘ritorno’ puro e semplice ~alle nozioni usuali su cui era costruito l’universo naturalistico; anche quando ‘il pittore d’oggi sembra volerle riprendere (riprendere, ripetiamo ancora per il caso di Recalcati, la nozione ‘paesaggio’, la nozione ‘vestito’, la nozione ‘finestra’), a ben vedere giunge ad esse attraverso un’ottica che non è più quella di prima, le afferra o con più vicinanza o con più distacco, comunque con angolazioni insolite. Tra la realtà come l’uomo del ‘senso comune’ era abituato a vedere e la realtà che gli presentano i pittori dei nostri giorni si erge ormai un diaframma, un vetro: un vetro che ovviamente garantisce una certa possibilità di rapporti tra l’una e l’altra rappresentazione [ ... ]. Il nostro vetro metaforico vuoI alludere a un atto fondamentale per accedere a un rapporto moderno con la realtà: l’atto che nei termini tecnici, del resto abbastanza divulgati, della fenomenologia prende il nome di ‘epochè’, o sospensione dei pregiudizi. Dovrebbe essere ormai ben acquisito, ma converrà ripeterlo: è questo un atto che non intacca, non incrina menomamente la certezza che il mondo c’è, solido, massiccio, consistente, non riducibile a un nostro fantasma, a una nostra proiezione ideale: mondo di carne, di materia. Ma quello che l’epochè ha il pregio di far apparire, è che il mondo, la realtà sono sempre visti secondo qualche particolare punto di vista: massa opaca mondana, più sistema di interpretazione.” Poco dopo, nel 1968, Giovanni Testori scriveva: “Ma per Recalcati, lo scontro tra il limite quasi cartellonistico dell’ astrazione e il limite quasi illustrativo e illusionistico della realtà, è indispensabile perché l’uomo, la sua impronta, possa ancora vagare sulle strade, nell’ alto dei cieli, sugli impossibili tramonti d’arance equatoriali che si lacerano e si spaccano, onde mostrarci ancora un’innocenza. Ecco: al fondo di Recalcati, della sua efferatezza, del suo orrore, della sua mania, della sua mancanza d’esitazioni e riguardi, al fondo del suo stesso gigantismo, corre e geme un belato innocente; il vortice e lo strazio di una giovinezza che s’è consumata e non può più credere a se stessa e stenta a ritrovare, nei termini così inumani della presente civiltà, le ragioni d’una qualsiasi, eventuale maturità. Lo scompenso e l’equilibrio, così fragile eppur’ così smisurato, della sua pittura deriva da qui; da qui quella decisione e quel senso di sfida ai mezzi stessi che usa, che lo pongono tanto più in alto e lo fanno essere, malgrado le apparenze, tanto diverso dai suoi coetanei; sì da riuscire a bruciare in sé le scorie di cui, invece, tanti continuano a nutrirsi; e a scavalcare, in quel modo, le ‘impasses’ stilistiche e antistilistiche in cui quasi tutti restano impigliati e diminuiti.” Poi una lunga pausa, con avanzamenti limitati della ricerca, fino al 1975, quando il Centro Pompidou ripropone con chiara consapevolezza il periodo delle impronte, affidandone la lettura ad AlainJouffroy. Ma la celebrazione cristallizza, mentre la pittura continua e Recalcati a New York non è restato inerme. Ha maturato nel corso di un decennio una nuova esatta visione della realtà che è culminata agli inizi degli anni Ottanta, vent’ anni dopo le impronte, in una serie di grandi dipinti di soggetto apparentemente sportivo.
Si tratta ad evidenza di un pretesto. Come i migliori pittori della sua generazione, o prematuramente scomparsi, come Domenico Gnoli, o limpidamente coerenti, in una rigorosa disciplina razionale, Recalcati affronta l’episodio quoditiano, apparentemente casuale, apparentemente insignificante e, figlio di un’ epoca che è stata quella di J ames J oyce, rende epico il quotidiano. Le finestre del suo grande loft al Village, a New York, danno su un campo di pallacanestro, dove insistentemente, ripetutamente, quotidianamente si svolgono allenamenti o partite. L’occhio di Recalcati esce dalla finestra dello studio e afferra orizzonti più vasti o ritagli di campo. Talvolta campo da gioco e campo visivo coincidono. Ma con la stessa ossessione con cui si ripetono i palleggi del pallone, l’immagine che entra nei quadri ha un ritmo, determinato dal muro dell’edificio di fronte, come una barriera insormontabile. Dall’ altra parte del muro dobbiamo immaginare la finestra da cui Recalcati si affaccia, come punto limite dello sguardo. Ma in realtà, ancor prima e quasi regolarmente, incontriamo un altro ostacolo, un altro filtro, una barriera trasparente ma evidente: la rete metallica che delimita il campo di gioco. Così, per Recalcati, tutto avviene come dentro una prigione, fra due muri in cui la realtà si manifesta. Mutano i tagli, ma il ritmo ossessivo, appunto, è quello. Non c’è evidentemente significato simbolico dietro a questa registrazione fenomenica, bensì un profondo significato spaziale. Il muro dà il limite della distanza. Davanti a esso, con un rigoroso ritmo architettonico, si schierano gli episodi. La rete è sostenuta da pali di ferro che riquadrano l’immagine e ne determinano i pesi. Grandi vuoti oltre la rete si interrompono per lasciare spazio alle figure dei giocatori, perfettamente inserite in una porzione che non potremo non chiamare architettonica, in un’ esaltazione continua di rapporti prospettici che ci consentono distanze e avvicinamenti dello sguardo.
Si tratta infatti di una vera e propria poetica dello sguardo, che registra impassibile lenti movimenti del corpo, cadenze di ombre e di luci, senza nessuna indulgenza per la fotografia, pur derivando da un impianto fotografico. E questa una nuova sfida di Recalcati, che nella massima nitidezza della visione pone un ulte~ riore filtro che non deforma e non appanna, che non censura arbitrariamente l’immagine. Il gioco è sottile”~ la pittura è per se stessa un filtro, per la sua specificità cromatica, per gli effetti di macchie, sia pur meccanizzati fino al limite della non pittura. Da sempre Recalcati ama stare in bilico e le sue prove non rientrano in categorie previste: alludono alla pop art, all’iperrealismo, alla fotografia, alludono anche all’ironia senza essere ironiche, al dramma senza essere drammatiche. Sono prove interne del linguaggio. E intanto, avendo davanti come antagonista la fotografia, cosa di più doppio che sostituire al retino fotografico la rete metallica vera e propria, non per effetto pittorico (essendo riprodotta, appunto, meccanicamente), ma per ambiguità concettuale? D’altra parte, questo nuovo assestamento della ricerca di Recalcati è per molti versi coerente con la sua ricerca precedente, pur risultando l’immagine più nitida e fissata. Ritroviamo in vari paesaggi, come si trattasse di immagini “mosse’” per il carattere stesso dello sport in movimento, il ricordo delle “impronte” nei pantaloni e nelle magliette dei giocatori e talvolta in una testa che si gira di scatto. Sono questi, paradossalmente, i momenti in cui Recalcati indulge a un maggior pittoricismo, con velature e trasparenze.
Il risultato è simile a quello di una stampa fotografica dal positivo al negativo e~non viceversa. Ancora una volta Recalcati sembra voler sospendere ogni giudizio sulla realtà e anche sugli strumenti per esprimerla. Talvolta la nostalgia della pittura spinge Recalcati a eccedere nell’ effetto a macchie, filtro a suo modo sostitutivo del retino, in assenza della rete metallica. Ma la novità di queste ultime opere sta in un’ altra nostalgia, quella per la grande pittura del Quattrocento italiano. Così nelle tele più riuscite Recalcati recupera un impianto classico, quasi pierfranceschiano, geometricamente cadenzato dai tubi che sostengono la rete. Un’imperscrutabile geometria governa i diversi elementi del dipinto, nei quali l’uomo diventa essenzialmente un elemento di misurazione dello spazio. In questi ritmi pausati hanno importante rilievo anche le indicazioni cromatiche, soprattutto le tracce segnaletiche del campo di gioco, e poi naturalmente i rossi antiruggine dei tubolari del cesto e della struttura che lo sostiene, gli ~elettrici azzurri dei pantaloni delle tute. C’è quasi un compiacimento nelle geometriche regolarità che questi tracciati visivi impongono. E sembra necessario a Recalcati distribuirli su grandi superfici. C’è qualcosa di vano, di inutile, in questa grandiosità, quasi per una volontà di dilatare la chiarezza, di portare a dimensioni reali la Flagellazione di Piero della Francesca, diminuendone il significato anziché ampliarlo. Così in molti ~passi la nitidezza è raggiunta attraverso una pittura rapida, come vediamo spesse volte nei tubi, dipinti con grande velocità per essere visti da lontano, una velocità che scopre un’ altra nostalgia confessata di Recalcati: quella delle Meninas di Velázquez. Insomma, in questi dipinti Recalcati ha voluto darci la sua “teologia” della pittura, i suoi “d’après” i maestri antichi, interpretati in chiave moderna, ossia di quotidiano, di ripetitivo, senza alcuna sacralità. Ma ciò che resta anche nel gioco è il rito: la maschera della divisa, le norme indicate dai segnali, insomma le “regole del gioco”.
Ma alla fine in questo classico far grande c’è quasi una confessione d’impotenza, una sfiducia nei risultati, un estremo virtuosismo della mente. Recalcati spinge alle estreme conseguenze il pedale della sua ricerca, in parallelo con quella di Domenico Gnoli. Vuole arrivare oltre le reti e oltre il muro, abbattere le barriere, come già aveva tentato in quei suoi quadri del 1978-79, in cui vediamo spuntare dalla tela squarciata una mano che porge il pennello o due mani che lo spezzano. Sono le mani dell’ artista, che anche allora alludeva all’ ambiguità delle Meninas, al gioco illusionistico che scambia chi dipinge con chi è dipinto. Recalcati chiama noi, ci pone al suo posto, si annulla alla fine, come in tutta la sua produzione precedente, ci costringe a riflettere, ci porta nel terreno insidioso dei suoi dubbi, fa vacillare i fondamenti stessi del vedere.
Apparentemente riproduttiva, facile, letterale, la sua pittura fa discutere, innalza un monumento alla suprema vanità dello sguardo, alla sua impossibilità di andare oltre le cose. Anche lo sguardo, sembra dirci Recalcati, è un’impronta, quella del nostro occhio sulle cose. Recalcati rifugge dal gradevole, dal piacevole, il suo è sempre un messaggio estremo e totale, ciò che gli preme non è rappresentare il suo sguardo sulla pittura, ma lo sguardo della pittura che si dà quasi indipendentemente da lui, il pittore. Il suo più anziano e sensibile esegeta, Alain Jouffroy, ha perfino dolorosamente, ma con assoluta autenticità, indicato la condizione della pittura di Recalcati, proponendosi lo stesso interrogativo sui limiti temporali della vita dell’arte da noi ,accennato all’inizio: “So che Recalcati ha usato a lungo, se non proprio abusato, di quel diritto di vita e di morte che un pittore ha sulla sua opera, e mi avessero detto tra il 1962 e il 1963 che egli aveva rinunciato alla pittura, non sarei rimasto più sorpreso che per la notizia della sua rinuncia alla vita. Ci sono degli uomini che impongono agli altri fin dal primo incontro questa idea del ‘tutto possibile’, e questa idea entra con tanta naturalezza nell’ atteggiamento adottato nei loro confronti che ogni loro azione, ogni, loro scomparsa ha la bellezza, bizzarra e ingiustificabile, di un gesto interrotto [ .. .]. La portata individuale di questo pittore è particolarmente difficile da cogliere e da intendere perché il suo cammino è caratterizzato quasi ogni anno da tali rivolgimenti, da tali ‘colpi di scena’, nella sua opera e nella sua vita, che vi si crede obbligato, in nome del rigore stilistico, a mantenere nei suoi confronti una certa riserva, un distacco critico. Infatti, al contrario di molti pittori italiani che sanno farsi notare per una specie di perfezione ottenuta troppo in fretta nell’organizzazione formale, Recalcati sente e concepisce la pittura come una battaglia impossibile a vincersi e che egli non cessa a ogni quadro di perdere. Può darsi che la pittura non sia per lui quell’ occasione per chiarire la portata senza limiti di questa partita o la profondità dello smacco subito dall’uomo, che il potere dell’illusione, creata dall’arte, non acceca mai completamente.”
Recalcati è rimasto con gli occhi aperti, e nei suoi ammirevoli risultati di oggi ci ha mostrato che non ha finito di combattere la battaglia, che la sua tensione è irriducibile e che la sola vittoria sta nella continuazione del combattimento, anche quando esso si manifesti sotto le apparenze del gioco.
Una vera e inconsueta emozione mi induce a riprendere la parola a poco più di un anno dalla stesura del testo che precede, davanti alle ultime grandi opere di Recalcati. Un’improvvisa rivoluzione dello spazio, un ansioso capovolgimento dello sguardo, una riduzione del mondo a una sola dimensione, dall’ alto verso il basso, senza orizzonte e senza alzato. Recalcati guarda davanti a sé verso terra, in un lungo cammino sui marciapiedi di New York.
Immaginiamo un’ alba piovosa: vaste pozzanghere animano la superficie grumosa dell’ asfalto. C’è qualcosa di ossessivo in questo lungo cammino tra paesaggi tanto omogenei quanto profondamente diversi. La nuova geografia di un territorio inesplorato, l’osservazione di ciò che è sorpassato dal nostro sguardo verticale, la meditazione a occhi bassi concentrati in un pensiero ripetitivo, la solitudine, ma poi anche l’esaltazione della pura forma, la smagliante bellezza dell’ ovvio, l’ambiguità tra forma e informe: a tutto questo alludono le tavole dell’ atlante metropolitano di Recalcati, in un percorso che non ha confini ma neppure sfogo. E perché, dunque? Per amore della pittura, per l’evidenza dell’immagine, per una intensità del vedere che si estende a ogni cosa. E come un mistico Recalcati percorre tutti i gradi dell’ ascesi verso una sempre più alta perfezione. Intanto, come il tardo Monet, abbatte i confini tra immagine riconoscibile e dissoluzione della forma, pur mantenendo un’ assoluta, fotografica evidenza. E più che in tutta la sua pittura precedente, Recalcati, sempre più puro ed essenziale, tocca uno sfinito estetismo, una suprema eleganza. E ci dimostra che ancora una volta la partita non è chiusa.