Winterreise am Olympia Stadion
Quando Klaus Gruber mi propose di “vestire” il mitico stadio delle Olimpiadi del 1936, accettai senza pensarci troppo.
Iniziai così a vagabondare per Berlino, ripetendomi che in fondo tutto quello che cerchiamo è sempre intorno a noi, tipico di chi invano cerca di farsi venire delle idee. Una però a poco a poco si era fatta strada: dovevo “svestirlo” questo stadio, ripulirlo dalla polvere della storia, vederlo nudo.
Camminando senza meta nel gelido inverno berlinesee mi era venuta fame; scorto un Imbiss al margine di un vasto spazio aperto mi fermai a mangiare un Bratwurst.
Il terreno attorno era pieno di rovi e piccoli arbusti che crescevano a fatica tra cataste di rovine rivestite di muschio. Su tutto incombeva una cappa di silenzio, abbandono, tragedia.
Improvvisamente come in un incubo più che un sogno la vedo, è davanti a me come era sempre stata lì, maestosa, così imponente da abbagliarmi la vista: la vecchia Anhalter Bahnhof.
Quello che in realtà avevo davanti a me erano le rovine della vecchia grande stazione. Da lì partivano le linee ferroviarie che collegavano Berlino all’Est europeo. Quel cumulo di rovine aveva però il medesimo fascino dei disegni e delle incisioni delle rovine classiche che i viaggiatori del Grand Tour riportavano dal loro viaggio in Italia.
Infatti su tutto emergeva quasi intatto il grande portale d’ingresso alla stazione nella tipica forma architettonica dell’arco di trionfo; arco di trionfo dell’anonimo viaggiatore, dell’arrogante vincitore col suo seguito di vinti. Sì i vinti della guerra, del razzismo che silenziosamente iniziavano il viaggio che finiva ad Auschwitz
Via dallo stadio quelle porte di legno dove passano i trionfi delle marionette del football per far posto a quel rudere che è l’emblema della immane tragedia che le olimpiadi hitleriane preannunciavano.