Il tabù della figura umana nel 1950
A metà del XX secolo – all’incirca dal 1948 al 1956 – la pittura ha scelto di ignorare la realtà, l’attualità, l’immagine fotografica, il cinema, i manifesti, la pubblicità, la politica. Il periodo del “trionfante astrattismo”, che nell’ultimo cambiamento d’indirizzo della scuola di Parigi si è chiuso con Poliakoff, Manessier, Bazaine, poi con Mathieu, fu quello di un particolare misticismo che consisteva nel fare dell’arte una realtà circoscritta a se stessa, estranea agli aspetti volgari del mondo, ed esclusivamente impregnata di problematiche intime, inconsce ed enigmatiche.
Infatti, dalla fine degli anni Cinquanta, il tabù al quale era sacrificata la figura umana fu superato. Ma ciò avvenne per merito delle impronte, delle forme, dei riflessi, delle ombre del corpo umano resuscitato: Yves Klein, Recalcati, Pistoletto. Tutto ciò sembrava un’opera di magia: bisognava che il corpo sposasse semplicemente la pittura, senza che il pittore intervenisse altrimenti se non per consentirgli di lasciare la sua traccia sulla tela, sul gesso o sul plexiglas, come se il corpo, da solo o con la sua forma, potesse distruggere ogni misticismo dell’astrazione.
È dunque rinunciando provvisoriamente al loro potere espressivo individuale, quasi volendo procedere a semplici riproduzioni oggettive,come quelle dei segni dei pneumatici sulla strada dopo un incidente, che i pittori hanno fatto di nuovo oscillare la pittura verso lo spazio del reale immaginario.
Yves Klein non conosceva Recalcati, né questi aveva mai visto Klein quando, alla fine del 1959 o agli inizi del 1960, decisero entrambi, uno a Parigi e l’altro a Milano, a qualche settimana di distanza, di lanciarsi nell’avventura dell’impronta. Yves Klein era già al culmine della sua folgorante carriera, e Recalcati agli esordi. In questa doppia luce di fine e inizio bisogna interpretare il fenomeno generale dell’apparizione dell’impronta nell’avanguardia delle arti visive in questi primi anni della seconda metà del XX secolo: fine dell’astrattismo, di cui il monocromo era la logica conclusione, poiché superava lo stesso Malevich, e inizio di una nuova arte figurativa, oggi in pieno sviluppo in tutto il mondo, e di cui Recalcati da quindici anni è uno dei principali esponenti.
Recalcati reinventa la pittura figurativa
Le “impronte” di Recalcati, tra il 1960 e il 1962, formano un imponente complesso di un centinaio di dipinti, esposti fin dal 1960 a Bruxelles e a Milano, che hanno creato, per la prima volta nella storia della pittura, un linguaggio figurativo autonomo, legato alla situazione concreta dell’uomo nel suo mondo e carico di una potenza espressiva drammatica, che l’ha trascinato agli antipodi dell’utopia e dell’assoluto. Il nero e la terra di Siena conferiscono a queste “impronte” un’effettiva concretezza esistenziale. Autobiografiche, rimandano immediatamente al pittore stesso, che ha letteralmente schiacciato il suo volto sulla tela, come fanno talvolta i fanciulli contro i vetri, con quella attrazione angosciosa per ciò che sta “dall’altra parte”, questa dimensione di morte e di eternità in cui i quadri restano finestre chiuse. L’interno della camera e dello studio, le sbarre della prigione delimitano in modo teatrale i contorni, come se l’esercizio delle “impronte” avesse fatto scoprire molto presto a Recalcati i riti funebri della rappresentazione in uno spazio immaginario. Non c’è dunque da meravigliarsi che questo pittore milanese abbia contribuito così grandemente a rinnovare da cima a fondo il pensiero della pittura e a far cessare l’opposizione idealistica tradizionale tra l’azione e il sogno, le ossessioni individuali e la realtà sociale.
Dal 1962 Recalcati ha utilizzato spesso il sistema delle “impronte” all’interno di paesaggi cittadini -di New York e Parigi – nei quali esse mettono in risalto l’anonimato della folla o degli individui che vi si perdono. Di recente in una bellissima serie di quadri dedicati a Topino-Lebrun, il pittore francese rivoluzionario ghigliottinato nel 1801 da Napoleone, con bandiere e abiti che Recalcati ha inserito nello spazio di uno studio deserto, assillato dalla presenza inquietante di un cavalletto-ghigliottina, l’impronta si identifica letteralmente nella presenza-assenza del personaggio che è stato ucciso, cancellato dalla storia per la ragion di Stato.
Nessun pittore ha mai esasperato a tal punto l’arte dell’impronta fino alla perfezione drammatica e poetica della pittura figurativa propriamente detta. La tecnica della riproduzione oggettiva, di cui l’impronta è un esempio evidente, è stata messa da Recalcati al servizio del progetto, ben più ambizioso, di una rilettura generale della situazione dell’individuo nella storia: il suo isolamento esemplare, la sua libertà continuamente repressa, la sua parola sempre troncata, e tuttavia la vigilanza continua della sua intelligenza ironica e sferzante di fronte a tutte le ideologie dominanti.
Da “XX Siècle”, settembre 1975