Le impronte ritrovate

Le impronte ritrovate

 

Da Impronte a Impronte 

BEATRICE BUSCAROLI

“Ogni volta si sente la domanda prima, il perché si dipinge ancora, se farlo, come, e ogni volta la pittura reclama la sua verità d’esistenza e di forma, il suo aggiustarsi in una vicenda che ha età diverse e cambia nel tempo come un corpo, una stagione, come il tempo”". 

Questo mi capitava di scrivere sulle opere di Antonio Recalcati solo tre anni fa, o poco più. Dovevo quindi aspettarmi da lui, proprio seguendo quel che mi sembrava di aver intuito allora, un nuovo capitolo, una nuova stagione, un altro scatto in avanti. Dovevo aspettarmi ancora un dialogo tra sé e il suo corpo, tra sé e la sua pittura. Questa è stata sempre la storia di Antonio Recalcati, costantemente vissuta dall’interno della pittura: mai una concessione né a sé né agli altri, mai un cedimento, accomodandosi in qualche salotto, in qualche corrente artistica. Accettando tutto. Anche di non dipingere.

Sembra una strana storia. Una storia che parla di troppo amore, che racconta di esplosioni e implosioni, di un fuoco vivificante che spesso annichilisce e riduce al silenzio. Ma anche dopo il silenzio covando sotto la cenere dei ripensamenti per mesi, per anni, nasce una nuova scintilla. E il fuoco divampa.

Antonio Recalcati ha già raccontato quel che la storia si aspettava da lui. Una storia spesso disattenta’ parziale, una vicenda di parte che idolatra l’Avanguardia ma in fondo ama l’artista disciplinatamente disposto ai giochi di scuderia, al “quadretto” per il collezionista, alla soddisfazione del proprio mercante. Tutto ciò che Recalcati non è stato mai, nemmeno per un solo minuto. Nonostante tutto Recalcati lascia alla storia le sue Impronte, indelebili, assolute, primordiali nella loro fulminea intuizione, nell’impeto di scaraventarsi completamente sulla tela, con la voglia, con le mani, con il corpo. Lascia la sua storia americana, un’ esperienza senza sconti, senza particolari illusioni, dopo aver capito che gli americani non amavano i pittori europei, ma ostinatamente dedicata alla realizzazione della sua libertà espressiva, tesa verso un ciclo di opere fortemente caratterizzate, forsennatamente indipendenti. Henri-Alexis Baatsch, in un testo su Recalcati notò che si trattava “di una lotta contro l’intorpidimento della pittura, contro l’evidenza troppo semplice delle grandi certezze e dei troppi lati oscuri di un’ arte che si crede del tutto giustificata semplicemente perché mostra (…) La pittura è fonte d’angoscia e fonte di riflessione: è ciò che colpisce i sensi, li stordisce, condensa lo spirito di un’epoca, fa riemergere alla coscienza la fonte discontinua delle percezioni immediate, pone di fronte all’incertezza dell’identità e all’atto che la rivela…”.

Antonio Recalcati percorre la sua vita come un rabdomante naturale che identifica ogni minima pulsione e la trasferisce in pittura.

Le Impronte degli anni Sessanta furono il tuffo esistenziale dentro un’epoca che, ovunque, cercava una strada nuova, una via d’uscita dall’informale, dall’esistenzialismo ideologico, dalle superfetazioni politiche, dai rassicuranti golfi delle eredità picassiane; gesti e urla che diventavano bandiere, comode bandiere estetizzanti capaci di parlare anche alle masse. Fu allora che Recalcati indossò la pittura come una divisa e vi si gettò dentro con la domanda prima che la pittura gli poneva con la solita durezza.

Recalcati ne uscì col suo stesso corpo stampato sui quadri: maglie, canottiere, mutande, lacerti di volti e tracce di mani.

Non è Yves Klein, non è azionismo, è un’ altra cosa che fa cose affini a quelle che altri fanno in quegli anni, in modo diverso e con diverso scopo. Da quel tempo Recalcati ha ereditato una sorta di sagoma scura avvolte nelle bende, bruna sul bruno degli sfondi, quasi un alter ego che lo ha accompagnato anche più tardi, seguendolo quando si è trovato di fronte i paesaggi: erano prima paesaggi franti e ricomposti, separati da lunghe losanghe nere, come sbarre di prigione che spazzavano la visione in frammenti. Poi, scomparse le barre, i paesaggi si sono riaperti alla luce.

Non è realmente una biografia, né realmente una citazione: quella pittura che esce ed entra dalla pittura di Recalcati è la reale esigenza di una parte di sé che ha figura e forma.

Dovevo quindi aspettarmi che l’artista si muovesse ancora. Ma non potevo immaginare che il cerchio si chiudesse ora, che l’intuito raggiungesse l’àpice, la sublimazione.

Con queste ultime opere Antonio Recalcati consegna alla storia un ciclo perfetto, cresciuto, accresciuto e meditato lungo una vita intera. Consegna le “Impronte rivisitate”, una summa delle grandi intuizioni del prima, arricchite dall’esperienza di vita del poi. Recalcati aveva già maneggiato con cura le impronte alla fine degli anni ’90. Le aveva, per così dire, attualizzate, addomesticandone la rudezza, completandole cromaticamente con toni meno repulsivi.

Sembrava essersi rabbonito. Poi la mano scheletrita della morte si era posata sulla sua spalla cancellando concessioni, rivisitazioni.

L’artista aveva risposto a modo suo all’impulso. Ubbidendo ciecamente. E la morte aveva attraversato tele, orizzonti, situazioni, si era impadronita di ciò che ancora restava vivo, piegandolo alla sua iconografia essenziale e terribile.

I grandi artisti si piegano ma non si spezzano. Il lavoro dei grandi, raggiunta la piena maturità, da un certo momento in poi cessa di appartenere loro e diviene assoluto. Il lavoro risponde solo alla sua storia. Così accade nelle biografie dei maggiori, nelle giovinezze rivisitate con la saggezza disincantata dagli anni: “Invecchiare, un problema per artisti” suonava il titolo di una celebre conferenza del medico e poeta tedesco Gottfried Benn.

Così oggi è per Recalcati. Il cerchio si è chiuso dalle Impronte alle Impronte che riecheggiano su paesaggi africani, dove la morte è regina e miete quotidianamente a piene mani. L’artista le chiama “Impronte ritrovate”, ma sa di averle sempre conservate nella sua parte più autentica e più esclusiva. La libertà, raggiunto lo stato puro, le ha fatte uscire con leggerezza implacabile, con assoluta naturalezza. E il cerchio si è chiuso. Sulla vita e sulla morte, sul presente e sul passato, sul dolore e la sofferenza, del mondo e dell’ artista. Resta solo la sua pittura, essenzializzata nelle sue componenti più forti, esclusive: l’Impronta e la Morte. Si libra leggiadra, in certi momenti, si concede il gesto perfetto del nuotatore sotto una luna piena di cielo orientale, vera e falsa come ogni grande pittura: sa di avere ogni licenza, ha saggiato ogni terreno, ogni possibilità. E corre, sicura, tra le barriere elette di un prima e di un dopo che sembrano essere solo biografia, ma sono capaci di sciogliersi in un canto, in un racconto. Occhieggia “el perro” di Goya, un ammiccare tra pittori, tra sopravvissuti, tra adepti.

Ora le Impronte sono pittura che imita gli effetti veri dell’impronta solo che il corpo non c’è piu. Dietro quegli angoli scheletriti resta l’anima della pittura e la sua implacabile necessità. Il suo eterno tornare, come un destino. Amato e detestato. Ora il pennello imita le ombre che allora erano dei corpi veri e degli stracci con la perizia di un artista che chiede indietro alla pittura quel che le ha dato.

In un mondo che vuole le guerre trasformate in videogiochi, le violenze in passatempi, il bello nel brutto, l’inutile nell’indispensabile, Recalcati non fa sconti.

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.