Della Presenza e della Rappresentazione: Recalcati.
Francesco Dama
Qual è colui che forse di Croazia
viene a veder la Veronica nostra,
che per l’antica fame non sen sazia,
Dante Alighieri, Paradiso, XXXI, 103 – 105
Succede curiosamente di rintracciare, nell’opera di artisti notoriamente non credenti, analogie con un contenuto che potrebbe definirsi a piena ragione spirituale, talvolta anche di lampante intensità.. Così paiono le figure isolate nella contemplazione della Crocifissione nella schiva sala capitolare dell’ex-convento di Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, oggi difficilmente visitabile, il cui autore è definito da Vasari quale “persona di assai poca religione”
. L’atteggiamento meditativo di quei santi affrescati da Perugino, completamente immersi in un’aura mistica, viene a collidere non poco con il ritratto dell’artista proposto dalle Vite: un “cervello di porfido”
interessato più ai beni materiali, nello specifico immobili, piuttosto che alla salvazione dell’anima.
Così paiono, ad una prima analisi, alcune tele degli inizi di Recalcati, in cui comuni capi di abbigliamento, calzini, mutande, t-shirts, sono impressi nel pigmento fresco, quasi si trattasse di un’ostensione. Alain Jouffroy ne ha rilevato questo aspetto scrivendo a proposito di reliques
, preoccupandosi però di allontanare il lettore di quei quadri da una qualsiasi interpretazione trascendentale: “per Recalcati che vive nell’ateismo come un pesce vive nell’acqua, l’arte non è mai il pretesto per crearsi un appiglio sulla trascendenza”
.
La produzione più interessante dell’artista – fatta forse eccezione per quella newyorkese degli anni ‘80 – è quella condotta sul tema dell’impronta. È già stato ampiamente sottolineato
l’importante ruolo che tali lavori, risalenti alla fine degli anni ‘50, hanno svolto nel panorama di una cultura artistica allora dominata dall’astrattismo; Recalcati concorre a reintrodurre la figura umana nella ricerca artistica, in un modo del tutto personale che si avvale dell’impronta del proprio corpo e dei propri indumenti sulla tela.
All’insaputa di quanto avveniva allora in Francia, dove la poetica del Nouveau Réalisme si andava destando
, l’artista compone una peinture de la decèption pure
, fatta dei toni sordi della terra, della materia nera e disperata. Una pittura del fallimento, secondo Jouffroy
, che è il risultato di una continua tenzone contro la pittura stessa; e ciò nonostante, Recalcati ricomincia a dipingere, ogni volta, dall’inizio.
Così si succedono, con le tele, gli anni: l’artista inserisce un intento narrativo commisto a sensazioni derivate dalla cultura pop, che ora si fa incalzante, pone un confronto con l’idea della morte, apre lo sguardo sulla finestra di un loft di New York che dà su un campo da basket e lascia entrare le brezze del realismo statunitense, abbandona la pittura, incontra la ceramica, ritrova i lavori degli inizi.
Le ultime opere di Recalcati sono una rivisitazione di quelle impronte con cui si fece notare dal panorama artistico, appena ventenne (e che gli valsero l’ammirazione, fra gli altri, di Jacques Prévert e Dino Buzzati). L’artista ritrova la componente poetica dell’origine, mediata dalla consapevolezza maturata negli anni di ricerca, a riprova di quanto un tropo culturale con così tanta intensità quale l’impronta sia connaturato alla sua sensibilità.
Le tele di Recalcati parlano un linguaggio che è antico quanto il primo impulso creativo dell’uomo, che ebbe la necessità somma di imprimere l’immagine della propria mano sulla roccia; indagano la complessa relazione fra assenza e presenza, rimandando al rapporto temporale individuato da Benjamin nel Già-stato e nell’Adesso [Jetzt]
.
L’impronta gode di un’ontologia singolare: certifica una presenza, un avvenimento che, seguendo Barthes
, è-stato, percorrendo una via che diremmo per absentia, mantenuta però in un eterno presente; dice costantemente il referente (che è il corpo impresso, in questo caso, l’artista stesso) senza chiarirlo mai.
Secondo la felice definizione di Georges Didi-Huberman, si tratta di “qualcosa che ci parla sia del contatto (il piede che sprofonda nella sabbia) sia della perdita (l’assenza del piede nella sua impronta); qualcosa che esprime sia il contatto della perdita, sia la perdita del contatto”
.
In una dialettica simile si muove l’attività dell’artista, che origina forme problematiche, talvolta inattese, aperte. Hanno questo significato i volti instabili impressi nel colore di Recalcati, sono identità negate, sussurrate piuttosto che dichiarate, quasi certificassero l’impossibilità di raggiungere la meta.
I corpi trasferiti sulla tela vivono di una magnifica contraddizione: paiono indagati nella più minima piega, tanto da ricondurre ai referti radiografici o alla pratica delle cere anatomiche, ottenute proprio per impronta, ma si sottraggono a chi voglia affrancarsi dalla loro condizione perturbante, imprigionati dalla pittura, distanti. Di fronte al lavoro di Recalcati si prova un tenace effetto straniante, come osservando il negativo di un calco facciale; le leggi della percezione sono sovvertite.
La tela è il luogo di un incontro, dell’evento, quasi una reminiscenza dell’ “arena per l’azione” descritta da Rosenberg a proposito dei pittori d’azione americani
, sito che annuncia un inserimento in arte della poetica del corpo
.
La tradizione ci ha consegnato le immagini della divinità come impronte. Il Volto Santo, sia esso impresso su tessuto (Mandylion, Sacra Sindone) o su argilla (Keramion) è acheropita, secondo un processo miracoloso per cui la figurazione, ottenuta attraverso contatto, gode degli stessi assunti validi per l’incarnazione. Per il credente, il velo della Veronica parla di “una distanza che potrà essere colmata solo alla fine dei tempi, nel giorno del Giudizio”
.
Nessun miracolo nelle tele di Recalcati. C’è però un senso della distanza che è simile, come di attesa, quell’“antica fame”, inappagabile.
Roma, ottobre 2010
Dal catalogo della mostra “Sunset Boulevard” Firenze 2010